Materia
Reati – Abuso d’ufficio
Tipologia di decisione
Sentenza di rigetto
Sentenza di inammissibilità
Oggetto della q.l.c.
Art. 1, co. 1, lett. b), legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare)
Parametri
Art. 11 Cost.; art. 117, co. 1, Cost., in riferimento agli obblighi discendenti complessivamente dagli artt. 1, 5, 7, § 4, 19 e 65 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con legge 3 agosto 2009, n. 116[1]
Massime
- L’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, co. 2, Cost.
- L’abrogazione del reato di abuso di ufficio da parte del legislatore italiano non contrasta con la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (la cosiddetta Convenzione di Mérida).
- La Corte costituzionale non può sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante da tale abrogazione, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.
- Il generale obbligo di rispettare i «vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario» e gli «obblighi internazionali», sancito a carico del legislatore dall’art. 117, co. 1, Cost., vale anche in materia penale.
Profili d’interesse
- La sentenza pone in evidenza i limiti della stessa Corte costituzionale, la quale non può sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abrogazione dei reati, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.
- La Corte, che pure ha ravvisato la presenza di indubbi vuoti di tutela per l’abolizione del reato, ha chiarito che il bilanciamento tra i “costi” ed i “benefici” della riforma è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile al metro dei parametri costituzionali ed internazionali esaminati.
Precedenti connessi
- C. cost., sentenza 7 marzo 2025, n. 24;
- C. cost., sentenza 17 dicembre 2024, n. 203;
- C. cost., sentenza 10 maggio 2024, n. 84;
- C. cost., ordinanza 1° febbraio 2022, n. 29;
- C. cost., sentenza 18 gennaio 2022, n. 8;
- C. cost., sentenza 11 febbraio 2021, n. 17;
- C. cost., sentenza 6 marzo 2019, n. 37;
- C. cost., sentenza 13 marzo 2014, n. 46;
- C. cost., sentenza 23 gennaio 2014, n. 5;
- C. cost., sentenza 1° agosto 2008, n. 324;
- C. cost., sentenza 23 novembre 2006, n. 394;
- C. cost., sentenza 1° giugno 2004, n. 161;
- C. cost., sentenza 20 novembre 2000, n. 508.
Sugli obblighi internazionali/sovranazionali ed il rapporto con la responsabilità penale
- C. cost., sentenza 31 maggio 2018, n. 115;
- C. cost., ordinanza 26 gennaio 2017, n. 24;
- C. cost., sentenza 25 febbraio 2014, n. 32.
Estratto della motivazione
5.1. – […] Questa Corte ha recentemente ribadito che, in materia penale, «l’adozione di pronunce con effetti in malam partem in materia penale risulta, in via generale, preclusa dal principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost.». Tale principio, «rimettendo al “soggetto-Parlamento” (sentenza n. 5 del 2014), che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394 del 2006), le scelte di politica criminale (con i relativi delicati bilanciamenti di diritti e interessi contrapposti), impedisce alla Corte, sia di creare nuove fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti, sia di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti, comunque sia, alla punibilità» (sentenza n. 8 del 2022, punto 4 del Considerato in diritto; nello stesso senso, più di recente, sentenza n. 84 del 2024, punto 2.2.1. del Considerato in diritto e ordinanza n. 29 del 2022, nonché in precedenza, ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, punto 5 del Considerato in diritto; n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto; n. 46 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto; n. 324 del 2008, punto 5 del Considerato in diritto; n. 394 del 2006 punto 6.1. del Considerato in diritto; 161 del 2004, punto 7.1. del Considerato in diritto).
Il principio ammette tuttavia varie eccezioni, riassunte dalla sentenza n. 37 del 2019 (punto 7.1. del Considerato in diritto) nei termini seguenti.
5.1.1. – In primo luogo, viene in considerazione «la necessità di evitare la creazione di “zone franche” immuni dal controllo di legittimità costituzionale, laddove il legislatore introduca, in violazione del principio di eguaglianza, norme penali di favore, che sottraggano irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte, stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero prevedano per detto sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006)» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).
La legittimità costituzionale di siffatte “norme penali di favore” è dunque scrutinabile da questa Corte, ancorché l’eventuale accoglimento della questione determini necessariamente un ampliamento dell’area di rilevanza penale, coperta dalla norma incriminatrice il cui ambito applicativo è destinato a riespandersi in conseguenza della pronuncia di illegittimità costituzionale.
5.1.2. – La seconda categoria di eccezioni riguarda i vizi genetici del provvedimento abrogativo, quando a essere censurato è lo «scorretto esercizio del potere legislativo: da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014, e ulteriori precedenti ivi citati); da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014); ovvero anche da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014). In tali ipotesi, qualora la disposizione dichiarata incostituzionale sia una disposizione che semplicemente abrogava una norma incriminatrice preesistente (come nel caso deciso dalla sentenza n. 5 del 2014), la dichiarazione di illegittimità costituzionale della prima non potrà che comportare il ripristino della seconda, in effetti mai (validamente) abrogata» (sentenza 37 del 2019, punto 7.1 del Considerato in diritto; in termini analoghi, più recentemente, sentenza n. 8 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, nonché – in precedenza – sentenza n. 46 del 2014, punto 3 del Considerato in diritto).
5.1.3. – Un terzo novero di deroghe è stato ammesso da questa Corte quando l’effetto peggiorativo della disciplina sanzionatoria in materia penale conseguente alla pronuncia di illegittimità costituzionale si configuri come «mera conseguenza indiretta della reductio ad legitimitatem di una norma processuale», derivante «dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale» (sentenza n. 236 del 2018, punto 8 del Considerato in diritto).
5.1.4. – Infine, un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in malam partem può «risultare ammissibile ove si assuma la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 117, primo comma, Cost.» (sentenza n. 37 del 2019, punto 7.1. del Considerato in diritto).
Un tale controllo è stato compiuto da questa Corte in relazione a una disposizione extrapenale che, sottraendo temporaneamente le ceneri di pirite dalla categoria dei rifiuti, aveva escluso, durante il periodo della sua vigenza, l’applicabilità delle sanzioni penali previste per la gestione illegale dei rifiuti. Rilevato il contrasto, di cui il giudice rimettente si doleva, tra tale disposizione e gli obblighi stabiliti dalle direttive comunitarie in materia di rifiuti, questa Corte ne ha dichiarato l’illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., osservando in particolare che, «se si stabilisse che il possibile effetto in malam partem della sentenza di questa Corte inibisce la verifica di conformità delle norme legislative interne rispetto alle norme comunitarie […], si toglierebbe a queste ultime ogni efficacia vincolante per il legislatore italiano, come effetto del semplice susseguirsi di norme interne diverse, che diverrebbero insindacabili a seguito della previsione, da parte del medesimo legislatore italiano, di sanzioni penali. La responsabilità penale, che la legge italiana prevede per l’inosservanza delle fattispecie penali connesse alle direttive comunitarie, per dare alle stesse maggior forza, diverrebbe paradossalmente una barriera insuperabile per l’accertamento della loro violazione» (sentenza n. 28 del 2010, punto 7 del Considerato in diritto).
Il principio della prevalenza del rispetto degli obblighi sovranazionali rispetto alla generale preclusione di pronunce che determinino un effetto in malam partem in materia penale è stato, poi, incidentalmente ribadito dalla sentenza n. 32 del 2014, la quale – nel dichiarare l’illegittimità costituzionale di modifiche alla disciplina penale in materia di stupefacenti attuate in sede di conversione di un decreto-legge in violazione dell’art. 77 Cost. – ha ritenuto che il proprio sindacato non fosse precluso dai possibili effetti in malam partem della pronuncia, osservando che la reviviscenza della norma illegittimamente abrogata fosse imposta, tra l’altro, dalla necessità di non lasciare impunite «alcune tipologie di condotte per le quali sussiste un obbligo sovranazionale di penalizzazione. Il che determinerebbe una violazione del diritto dell’Unione europea, che l’Italia è tenuta a rispettare in virtù degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.» (punto 5 del Considerato in diritto).
La stessa sentenza n. 37 del 2019 – che pure ha dichiarato inammissibili una serie di censure sollevate dal giudice rimettente nei confronti della disposizione che, nel 2016, aveva abrogato il delitto di ingiuria in relazione all’allegato contrasto di tale scelta legislativa con le norme di diritto internazionale dei diritti umani che tutelano i diritti all’onore e alla reputazione – ha fondato la propria decisione sul totale difetto di motivazione, da parte del rimettente, circa la sussistenza di uno specifico obbligo, derivante dal diritto internazionale, di assicurare la tutela del diritto in questione mediante l’adozione di sanzioni penali (punto 7.3. del Considerato in diritto). Il che ovviamente non esclude, ed anzi a contrario conferma, che – ove un obbligo di tutela penale sia effettivamente stabilito dal diritto internazionale – la sua violazione da parte del legislatore penale possa essere censurata innanzi a questa Corte.
[…]
5.2.3. – [I]l legislatore gode di ampia discrezionalità nella delimitazione delle condotte punibili. Tale discrezionalità deve essere invero sottoposta a un controllo particolarmente attento da parte di questa Corte in relazione alle scelte di incriminazione, in quanto necessariamente limitative dei diritti fondamentali della persona (sentenza n. 46 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto); ma deve essere riconosciuta in termini assai ampi rispetto alle scelte di non punire determinate condotte in precedenza incriminate, pur lesive di interessi costituzionalmente rilevanti o comunque meritevoli di tutela, sempre che il legislatore appresti altri strumenti di tutela di tali interessi, nell’ottica dell’extrema ratio della tutela penale – criterio, quest’ultimo, esso pure di rilevo costituzionale, alla luce del principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale (sentenze n. 84 del 2024, punto 3.2. del Considerato in diritto; n. 22 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Ma anche a prescindere da tale considerazione, la costante giurisprudenza costituzionale poc’anzi richiamata ha sempre escluso che una pronuncia di questa Corte possa intervenire a modificare il confine dei fatti penalmente rilevanti tracciato dal legislatore, con un effetto estensivo della responsabilità penale dei destinatari delle norme penali, soltanto per porre riparo a eventuali disparità di trattamento tra condotte sanzionate aventi, in ipotesi, analogo o minore disvalore. Un simile risultato, sinora, è sempre stato considerato precluso dalla riserva di legge in materia penale di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., che, invece, non si oppone alla riduzione dell’area di responsabilità penale tracciata dal legislatore a opera di questa stessa Corte, nell’ambito del proprio sindacato exart. 3 Cost. (come accaduto, ad esempio, nella sentenza n. 508 del 2000, punto 4 del Considerato in diritto).
[…]
5.2.4. – Né la preclusione di un sindacato in malam partem in riferimento all’art. 3 Cost. potrebbe essere superata nel caso ora all’esame, come suggerisce il GIP del Tribunale di Roma nella propria ordinanza di rimessione (iscritta al n. 33 reg. ord. del 2025), inquadrando la disposizione censurata come “norma penale di favore” che sottrarrebbe, «senza alcuna ragione giustificatrice, una categoria di soggetti dall’attuazione di una norma penale generale».
La categoria delle “norme penali di favore” rispetto alle quali è ammesso un sindacato di legittimità costituzionale comprende infatti – secondo quanto di recente ribadito da questa Corte – quelle norme «che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall’applicazione di norme generali o comuni compresenti nell’ordinamento [corsivo aggiunto]. L’effetto in malam partem conseguente alla dichiarazione di illegittimità costituzionale di tali norme non vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di criminalizzazione, rappresentando una conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria. La qualificazione come norma penale di favore non può essere fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal raffronto tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale. In tal caso, la richiesta di sindacato in malam partem non mira a far riespandere una norma tuttora presente nell’ordinamento, ma a ripristinare la norma abrogata, espressiva di una scelta di criminalizzazione non più attuale: operazione preclusa alla Corte» (sentenza n. 8 del 2022, punto 7 del Considerato in diritto).
[…]
5.2.5. – […] In ogni caso, laddove non sussistano puntuali obblighi di incriminazione discendenti dalla Costituzione o da altre fonti vincolanti per il legislatore, non può che spettare a quest’ultimo la decisione circa l’an dell’eventuale tutela penale da assicurare agli interessi che la stessa Costituzione impone in via generale di proteggere, senza però specificare con quali strumenti tale protezione debba essere assicurata.
[…]
8. – In definitiva, questa Corte ritiene di non potere, sulla base dei parametri evocati, sindacare la complessiva efficacia del sistema di prevenzione e contrasto alle condotte abusive dei pubblici agenti risultante dall’abolizione del delitto di abuso d’ufficio, sovrapponendo la propria valutazione a quella del legislatore.
Se gli indubbi vuoti di tutela penale che derivano dall’abolizione del reato – emblematicamente illustrati dalle vicende oggetto dei quattordici giudizi a quibus – possano ritenersi o meno compensati dai benefici che il legislatore si è ripromesso di ottenere, secondo quanto puntualmente illustrato nei lavori preparatori della riforma, è questione che investe esclusivamente la responsabilità politica del legislatore, non giustiziabile innanzi a questa Corte al metro dei parametri costituzionali e internazionali esaminati.
1 La sentenza prende in considerazione anche profili che non sono oggetto di questo report.